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Un abusivo alla Dakar

RIDERS MAGAZINE 12 Dicembre 2016

Andare oltre: è questo il significato, derivato dal latino, della parola trasgressione. Una tendenza insita nell’uomo, che ha sempre provato a superare i propri limiti. Anche quando si è innamorati, si fanno cose che vanno oltre i consueti comportamenti, fino a compiere azioni sorprendenti. Di amore travolgente si parla anche in questo caso e, più precisamente, di un’attrazione fortissima per la più grande delle avventure, che da quasi quarant’anni affascina generazioni di romantici cercatori di sensazioni forti e prove estreme, la Dakar.

Dal dicembre del 1978, quando Thierry Sabine ha dato origine alla più seducente delle competizioni, il rally raid per antonomasia è sia cambiato, ma non ha perso il suo fascino: incantare con la sua avvincente imprevedibilità.

Certo, la Dakar non è alla portata di tutti, né dal punto di vista fisico né da quello economico e, anche per questo, è destinata a rimanere un sogno irraggiungibile ai più. Ma c’è anche chi ha avuto il fegato di aggirare gli ostacoli. È il caso, unico e irripetibile, del milanese Lorenzo Piolini, cresciuto col mito della Parigi-Dakar e diventato, grazie a questo esempio, un motociclista viaggiatore. Con la sua coetanea Africa Twin ha collezionato esperienze su e giù per il mondo, merito dell’avventura che ha nel sangue e dell’incoscienza impetuosa dei suoi vent’anni. La spavalderia di partire per destinazioni sconosciute, la temerarietà di essere pronto ad accettare ogni tipo d’imprevisto. Solo lui, la moto e la tenda. Ecco come questo esploratore segaligno dall’espressione beffarda ha sempre affrontato la vita. A un certo punto, però, ha deciso di puntare più in alto.

Quando i viaggi in solitaria sono all’ordine del giorno, bisogna alzare la posta. E, per gli esploratori su due ruote come te, il sogno proibito ha un solo nome: Dakar.

«Esattamente. Nonostante la Dakar sia sempre stata il mio sogno, mi rendevo conto che, in questo periodo della mia vita, non avrei potuto in nessun modo avvicinarmici, sia perché la mia preparazione fisica non era all’altezza di una prova così estrema, sia perché non avrei potuto permettermelo sotto l’aspetto economico. Perciò, mentre stavo progettando un viaggio in Sudamerica, ho pensato che se avessi voluto scoprire da vicino la Dakar, avrei dovuto fare una follia. Ero disposto a tutto pur di toccare con mano quella che per me è sempre stata una leggenda. Dunque, ecco che la pulsione a trasgredire mi arriva in soccorso!
L’idea era sconvolgente ed eccitante allo stesso tempo, un’impresa impossibile, che nessuno prima d’ora aveva mai osato mettere in atto: partecipare al rally comeabusivo».

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Un progetto di tale portata richiede un piano ben architettato. Come hai deciso di organizzarti?

«Mancava poco all’inizio della Dakar 2015, quella che avrebbe attraversato ArgentinaBolivia e Cile quindi, per prima cosa, ho pensato a camuffare la moto per destare meno sospetti. Così, mentre ero ancora in Italia, ho preso spunto dalle primissime foto disponibili sul web e ho riprodotto fedelmente gli adesivi ufficiali di gara, ricostruendo intuitivamente dimensioni e caratteristiche, e li ho applicati alla moto, tabella porta-numero compresa, dopodiché ho pensato a spedirla in Sudamerica. Nonostante la gara prendesse il via da Buenos Aires, ho mandato la moto a Valparaíso, in Cile, perché lì, in base alle informazioni che possedevo, sarebbe dovuto essere più semplice sdoganarla. Niente di più falso! Una volta a Valparaíso ho dovuto affrontare le prime grane. Forse perché, per risparmiare, avevo spedito la moto senza appoggiarmi a un’agenzia, forse perché non era provvista di assicurazione, tant’è che mancava l’autorizzazione per ritirarla. Viaggiando mi è capitato spesso di dover far fronte a imprevisti come questo e così, fortunatamente, ho imparato a improvvisare. In questo caso mi è bastato fare amicizia con un operaio del porto per prendere in prestito divisa ed elmetto ed entrare a ritirare la cassa di persona».

Rispetto alla missione che avevi in mente, questo è niente. Il problema, adesso, era avvicinarti al rally gradualmente, senza dare nell’occhio e, soprattutto, senza fare errori: un passo falso e sarebbe saltato tutto.

Ma esuberanza e spudoratezza sono qualità potentissime e, spesso, sottovalutate, soprattutto per uno intraprendente come te.

«In effetti, quelle che sembravano solo quattro chiacchere innocenti con il personale all’ingresso di Technopolis si sono rivelate determinanti per avere una visione più chiara della situazione. È stato in quell’occasione che ho realizzato: il mio ostacolo era non avere il pass. Tuttavia, la conversazione mi era stata utile anche per ottenere dati precisi su quali sarebbero stati gli orari del giorno seguente e l’ingresso esatto da dove sarebbero passati i piloti. Non restava che tornare in ostello e rimanere in disparte fino al giorno seguente, momento in cui sono riuscito, a colpo sicuro, a infilarmi nella carovana che entrava nel bivacco».

Technopolis, durante i giorni delle verifiche, è un’area enorme, una specie di città invasa da centinaia di mezzi in gara e camion d’assistenza, meccanici, piloti, team intenti a scaricare macchine e moto per prepararsi a essere esaminati, una grande baraonda rumorosa e concitata, che non si ferma neanche di notte. Come hai pensato di procedere?

«Era la condizione ideale per inforcare la moto, tutta preparata con gli adesivi ufficiali, e intrufolarmi come un vero concorrente. Così ho fatto e… missione compiuta! La mia intuizione si era rivelata vincente al punto che, più tardi, vedendomi senza braccialetto dell’accredito, un addetto della sicurezza me ne ha addirittura procurato uno, inferendo che avessi smarrito il mio. Da quel momento non avevo più nulla da temere. Il braccialetto era il mio lasciapassare verso il mito, e io ce l’aveva fatta, ero dentro. Col passare delle ore, però, ciò che inizialmente mi sembrava un trionfo, si è rivelato un’impasse. Mentre la vita in quel microcosmo procedeva convulsa, io era solo, senza conoscenze, senza cibo, né una tenda dove passare la notte. L’indomani sarebbe iniziata la gara ma, a parte la moto, non avevo nulla con me. Forse io per primo non credevo che sarei riuscito a farla franca, ragion per cui non ero organizzato con tutto ciò che mi sarebbe servito. Abbandonato a me stesso, sentivo di non avere alternative, così ho optato per l’unica scelta possibile: fuggire. Sono uscito a tutto gas e sono tornato in ostello per preparare una sacca di sopravvivenza con il necessario per affrontare, questa volta sul serio, la Dakar 2015. L’indomani, prima dell’alba, con quattro attrezzi, una borsa e una tenda legati sulla moto, ho lasciato l’ostello per recarmi in prossimità del parco chiuso e attendere che i piloti ritirassero le moto e, a quel punto, unirmi a loro e partire.

Non avendo il roadbook, l’unica cosa da fare era seguire il gruppo attraverso la prima tappa, Prova Speciale compresa, anche se non interamente poiché, se fossi rimasto indietro, avrei dovuto sudare per oltrepassare il varco del bivacco. Tagliare il percorso è stato, quindi, indispensabile per arrivare alla fine della tappa contemporaneamente al resto del gruppo e mimetizzarmi, ancora una volta, tra i concorrenti. E proprio lì, circondato dalle altre moto, ho notato l’insolita presenza di un altro bicilindrico. Si trattava di una KTM 1290, chiaramente non ammessa dal regolamento dakariano, che non accetta cilindrate superiori a 450 cc. Io e l’altro motociclista ci sorridiamo a vicenda e, forse per simpatia e spirito d’appartenenza, ci togliamo il casco e iniziamo a parlare. Lui si chiamava Eric Verhoef, un olandese con alle spalle dieci Dakar in moto e due in macchina, espressione bonaria, sorriso entusiasta e sguardo sognante. Ma che cosa ci faceva lì? Ufficialmente stava seguendo la gara come inviato per raccontarla in un blog, ma gli occhi tradivano le sue vere intenzioni: era lì semplicemente perché gli mancava in modo insopportabile. Un altro innamorato pazzo come me che agiva guidato dalla passione per l’avventura, che si trovava nel bivacco senza parlare una parola di spagnolo e, da pilota vero com’era, completamente disorientato a causa della mancanza dei classici strumenti forniti dall’organizzazione, quali roadbook e GPS. Se non altro, io il GPS lo avevo, oltre alla conoscenza della lingua e una quantità inesauribile d’intraprendenza. Dopo il confronto iniziale, perciò, abbiamo convenuto che la cosa più intelligente da fare fosse muoversi insieme, per sopperire reciprocamente alle rispettive lacune. È stato così che io, fino a quel momento limitato nelle conoscenze, sono stato introdotto nell’ambiente dal veterano Eric che, conoscendo logiche e persone della Dakar, non aveva problemi a inserirsi e, in cambio, riceveva da me tutto il supporto logistico che ero in grado di offrirgli».

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Dunque l’incontro con Eric è stato decisivo…

«Grazie a lui, fin dal primo giorno, ho avuto le porte spalancate dal momento che lì era di casa, e conosceva bene uomini dell’organizzazione e piloti. Il mio carattere, poi, ha fatto il resto, spingendomi con naturalezza a fare nuove conoscenze e penetrare fluidamente nel bivacco. Chiaramente ai concorrenti è bastato uno sguardo per rendersi conto che la mia Africa Twin del 1990 non era iscritta alla gara, e io non ho mai fatto mistero, ai piloti, della mia avventura da imbucato, cosa che mi ha fatto guadagnare, sorprendentemente, l’appoggio di tutti che, non vedendomi come un rivale, mi hanno ulteriormente aiutato a conquistarmi la permanenza all’interno del villaggio dakariano. Curiosamente, invece, una moto così diversa da tutte le altre non destava nessun sospetto agli occhi degli addetti alla sicurezza che presidiavano l’ingresso del bivacco. In Sudamerica, per mia grande fortuna, modelli come il mio non sono diffusi per cui i sorveglianti, nel vedere una moto ricoperta di adesivi e numero di gara, deducevano automaticamente che fossi un concorrente come tutti gli altri. Oltrepassato lo scoglio dell’ingresso, infatti, tutte le sere mi dirigevo solerte e sicuro verso uno dei tanti team con cui avevo fatto amicizia e, sceso dalla moto, mi muovevo indisturbato indossando la t-shirt di qualche squadra, senza correre più nessun rischio, anzi, acquisendo sicurezza giorno dopo giorno».

Ma se il problema principale, ovvero penetrare nel villaggio, era ormai stato superato, come gestivi la giornata? Eri praticamente un fantasma, se avessi avuto problemi con la moto o se ti fossi infortunato, nessuno ti avrebbe cercato, nessuno ti avrebbe soccorso.

«Appunto. Era indispensabile, di conseguenza, scegliere un approccio conservativo per non incappare in pericolosi imprevisti. C’è da dire che la mia Africa Twin, seppur datata, era stata preparata minuziosamente per l’occasione, aggiornando quello che il tempo aveva reso obsoleto, migliorandone resistenza e prestazioni sotto ogni punto di vista, dal motore, all’impianto elettrico, alla carena, per un risultato performante e sportivo. Un lavoro completo, arricchito da un tocco finale: l’amuleto himalayano che mi accompagna in ogni avventura dal 2012! Inoltre, nell’infausta eventualità di essere scoperto, avrei dovuto essere pronto a schizzare via in qualunque momento, quindi portavo sempre con me tutto ciò che possedevo – una mini borsa, una tenda striminzita, e una cassettina degli attrezzi. Se qualcosa fosse andato storto, sarei sparito senza lasciare traccia. In generale, comunque, non essendo iscritto, dovevo sempre augurarmi che qualcuno mi fornisse un pass giornaliero, quello destinato ai visitatori. Vivevo alla giornata e, seppur integrato, ogni giorno dovevo ripetere le stesse azioni sperando per il meglio: varcare la soglia, raggiungere gli amici, e procurarmi un nuovo braccialetto per guadagnarmi l’ingresso il giorno seguente.
Comunque, nonostante la situazione fosse imprevedibile e aleatoria, col passare dei giorni sono riuscito addirittura a ottenere le tracce e i punti GPS da un team di fotografi che, tutte le mattine, mi passava sottobanco queste informazioni impagabili che consentivano, a me ed Eric, di essere decisamente indipendenti, senza dover costantemente seguire i piloti per non sbagliare strada. Anche se ho cercato di frenarmi un po’ per evitare danni e infortuni, in molti momenti il cervello si spegneva e aprivo il gas senza pensare troppo alle conseguenze. Viaggiare in due, c’è da dire, era rassicurante ed esaltante allo stesso tempo, soprattutto perché stavo condividendo l’avventura con un dakariano vero, un gran manico, che in sella alla sua moto volava. E comunque, ok la prudenza, ma i ritmi erano quelli di un rally, bisognava accelerare. Non è stata una passeggiata. L’adrenalina invadeva tutto il mio corpo, e posso affermare di avere realmente compreso, per la prima volta, il significato della parola rally: tratte lunghissime, velocità molto elevate rispetto a quelle a cui ero abituato, e una prova più che altro di resistenza».

Suppongo sia stata un’occasione preziosissima anche per testare il tuo livello di preparazione, con le tue abilità e i tuoi limiti, e capire se sei pronto ad affrontare davvero una Dakar, qualora volessi tornarci come pilota iscritto regolarmente.

«Sotto questo aspetto mi è servita tantissimo. Mi sono reso conto che non è una cosa da prendere alla leggera, richiede una preparazione mirata da pianificare mesi prima. In questo momento non sono pronto ma, seguendo un programma di allenamento sì, senza dubbio, riuscirei a portarla a termine. Inoltre ho imparato come gestire una gara di questo tipo, dove non bisogna dare tutto subito, ma dosare velocità, forza e tecnica, in un equilibrio strategico da amministrare per due settimane consecutive. Devo ammettere che, affrontata così, la Dakar è stata godimento puro. C’era l’ansia di essere beccato, è vero, però durante il giorno avevo la serenità che un pilota in gara non può concedersi, perché non avevo lo stress di essere eliminato. Mi gustavo gli scenari dell’Argentina, restavo sbalordito di fronte al Salar de Uyuni nella parte boliviana del percorso, mi lasciavo affascinare dalla bellezza ambrata delle dune nel deserto cileno di Atacama. La sera, inoltre, mi godevo il bivacco chiacchierando con i meccanici di fronte a una birra ghiacciata, e ascoltando le storie eroiche dei piloti. Sebbene mancasse l’aspetto agonistico, sono certo di aver assimilato lo spirito della Dakar in tutte le sue sfaccettature».

Dopo averla seguita da tutta la vita, a cominciare da quella africana, che cosa pensi di questa nuova Dakar che in molti criticano, ti ha deluso?

«Assolutamente no, né dal punto di vista paesaggistico, né da quello della durezza del percorso. Ho parlato con molti piloti ed ex piloti e, ciò che mi sono sentito ripetere più spesso, è che la differenza principale sta nel fatto che in Africa, al termine della Speciale, anche il trasferimento era su sabbia, quindi bisognava ancora guadagnarsi il bivacco. Diversamente, in Sudamerica, una volta finito il tratto cronometrato, è tutto asfalto, e questo cambia un po’ le cose. Ma per il resto ci sono elementi che non erano presenti in Africa, come le altitudini a 4.000 metri, il deserto di sale in Bolivia, svariate tipologie di terreno che in Africa non s’incontravano, insomma ci sono difficoltà differenti. Quindi, come si può stabilire che una Dakar sia più difficile dell’altra? In generale no, non credo che quella dei giorni nostri sia più facile, sicuramente è un po’ diversa, perché guidare sulla sabbia a 4.000 metri di altitudineè una cosa devastante, che in Africa non si potrà mai provare e, per contro, sicuramente ci sono altri elementi che la rendono meno impegnativa di quella africana. Indubbiamente si è evoluta, ma la magia di cui ti pervade è autentica».

L’esperienza di Lorenzo, così proibita e affascinante, in realtà è la conferma di quell’aspetto che ogni dakariano conosce bene, e corrobora la tesi secondo cui la Dakar, a differenza di qualunque altra competizione, non è semplicemente una gara, bensì un’avventura. Lo dimostra il fatto che Lorenzo, pur non avendo provato la componente competitiva, ha comunque interiorizzato lo spirito insito nella Dakar, vivendolo in ogni più profondo aspetto. Quello della stanchezza devastante dopo una giornata di fatiche, della preoccupazione costante di rompere il mezzo, dell’angoscia da cui si viene assaliti quando qualcosa nella navigazione non torna. Ma anche del sollievo indescrivibile alla fine di ogni tappa, dello stupore fanciullesco di fronte alle meraviglie della natura, dell’orgoglio misto a incredulità nel momento in cui si sale sul podio dopo averla portata a termine.

Vivere la Dakar significa entrare a far parte di un mondo a sé, in cui la sua aura misteriosa e leggendaria, oggi come allora, attrae personaggi fuori dall’ordinario, alla ricerca di sensazioni ad alto contenuto emotivo. Uomini con storie eccezionali, che hanno intrecciato le loro vite con l’avventura, collezionando esperienze uniche e senza tempo, proprio come quel fuoco che la anima, immutato, fin da quel lontano dicembre del 1978.

Credits: Eleonora Dal Prà